Nuove sfide per i prodotti italiani
Formule magiche
È mai possibile ridurre il made in Italy (d’ora in avanti anche minit) al mero scontro tra originale e contraffatto? Se sei disposto a guardare oltre, allora ti consiglio di leggere l’ultimo libro del sociologo Riccardo Giumelli, Post-Made in Italy. Nuovi significati, nuovi sfide nella società globale, edizioni altravista, 2019. Certo che le dimensioni della contraffazione sono tali, da minacciare chi rivendica l’origine del prodotto italiano, come tratto distintivo e leva di vendita, specie nei mercati internazionali. Ma a ben guardare, i confini del minit sono troppo slabbrati per comprendere tutte le formule magiche utilizzate da milioni di brand che includono nel proprio storytelling l’Italia e quello che rappresenta nel mondo. Si passa dall’italian origin, a etichette come made by Italy (fabriquée a la maniere italienne), italian sounding, italian style, experienced in Italy, Italian way of life, italian design, Italian factor, italian dream, inspired by Italy, renaissance effect, the art of living in Italian.
Quante sono le company with an Italian heart che hanno il nostro Paese come orizzonte di senso, dal quale non riescono né a prescindere né a distogliere lo sguardo? Giumelli ricorda che basta googlare l’espressione “Made in Italy” e il motore di ricerca ci restituirà circa 148milioni di link, più di quelli associati al “Made in France” (136milioni), meno dei “Made in Germany” (157milioni), quasi cinque volte di meno rispetto al “Made in China” (725milioni).

Per alcuni brand la contraffazione può diventare persino un vanto. A Benevento mi sono recato al Museo di Strega Alberti e la vetrina con tutte le imitazioni mondiali del mitico Liquore Strega, mi è balzata immediatamente agli occhi. L’impressione che mi sono fatto, tuttavia, riguarda la forza del marchio imitato, piuttosto che la debolezza e l’inganno di chi lo ha copiato. Ma Giumelli, nel suo Post-Made in Italy parla di un processo più generale di ibridazione, meno interessato alla contraffazione di specifiche merci e particolari brand, pure analizzati nel libro, quanto alla riproduzione dell’Italia negli immaginari collettivi, come super-brand, brand ombrello, capace di conferire valore a beni provenienti da ogni dove.
Fino alla dolce vita
Giumelli ci mostra una serie di casi che letti con le categorie del vero/falso, rischiano di farci precipitare nel ridicolo. Si va da Original Marines che nel logo reca l’icona della bandiera stelle e strisce, al marchio di abbigliamento sportivo Australian che oltre al nome ostenta anche un bel canguro pur essendo italianissimo. E che dire di Napapijri che ha scelto senza mezzi termini di raccontarsi semplicemente con la bandiera norvegese. Il libro sembra quasi voler superare più del minit, l’idea stessa del “made in” in quanto non più attuale. «Un’immagine pubblicitaria mostra una donna appoggiata ad una Volvo, difronte a sé ha un panorama, dove pare godersi il tramonto. Siamo in un luogo mediterraneo, lo si capisce dai colori, dalle piante. Ma ogni dubbio ce lo toglie lo slogan: made by Greece». Evidentemente il Mediterraneo è più sexy del Nord Europa. Ma il minit è davvero il più ambito a livello mondiale perché risveglia lo stile di vita italiano sinonimo di bellezza rinascimentale, artistica ma anche legata ai piccoli piaceri quotidiani, alla lentezza e al tempo libero, leggero e intenso come in nessun altro luogo. Sarà per questo che Giumelli dalle pagine del libro invoca l’inserimento della dolce vita tra i patrimoni immateriali dell’UNESCO, forse per proteggere un immaginario collegato al cinema, al novecento, alla nostra capitale, agli stranieri che provano a scoprire se stessi attraversi il nostro Paese.
Brand e territorio
Il tema mi è molto caro, dato che me ne sono occupato nel fortunato libro Napoli brand. Il valore aggiunto del territorio per l’identità aziendale (ad est dell’equatore, 2013), grazie al quale ho fatto il giro del mondo in 40 brand, condotto focus group da Nord a Sud del Bel Paese, rispondendo ad un mio cliente che mi chiedeva quali contro-indicazioni vi fossero nell’accostare il suo brand a Napoli. E come me Giumelli non sfugge al fascino del territorio in cui vive: «Prendiamo un’azienda tra le più conosciute nel mondo del territorio veronese: Masi. Una parte della sua produzione viene effettuata fuori dall’Italia, nella zona di Mendoza in Argentina. Si tratta di una differenziazione di prodotto, dove si mescolano uve locali con quelle veronesi in un territorio altro, spesso con l’aiuto di oriundi italici che risiedono in quella zona. Ne sono un esempio il Passo Doble, Rosso di Argentina (…) prodotto nella tenuta a conduzione biologica Masi Tupungato». Giumelli lo prende come punta dell’iceberg dell’ibridazione, visto che ricade il settore del vino italiano sembrerebbe immune da certe mix così glocali. Molto più esposto risulta essere il food, basti pensare alla bresaola IGP prodotta in Valtellina, a base di carne del bovino brasiliano zebù. Succede nella lavorazione delle carni ma anche nella pasta, dove la materia prima proviene da lontano, perché di alta qualità e a prezzo più basso e funzionale per la produzione industriale. Il territorio anche per Giumelli conserva tutto il suo valore: «Il prodotto ha una particolare identità, soprattutto nel campo agricolo, se si produce in quel particolare ambiente naturale: quella terra, quel sole, quel clima, quegli insetti e così via».

Tutto inizia a New York
E pensare che tutto questo ricercare di Giumelli era nato quasi per caso, in uno Starbucks di New York, dinanzi alla scoperta del Caffè Verona, miscela italian sound, sorpreso dalla sua stessa reazione in parte indignata per «un’indebita appropriazione» in grado di risvegliare «un moderato orgoglio», mentre la voce della sua immaginazione sociologica sembrava suggerire «Il ritorno in termini di immagine, almeno intuitivamente, per la città veneta è nettamente superiore rispetto all’idea di un furto da parte del colosso americano».
La portata dei processi di glocalizzazione descritti è tale da rendere le categorie che fino ad oggi abbiamo utilizzato, inadatte, mentre nuovi sistemi di opportunità si vanno coagulando, attorno agli ibridi culturali che stanno prendendo il sopravvento. Ibridazione che parte dalle persone, sempre meno italiane e sempre più italiche: secondo le stime di Giumelli, esiste una community di 250milioni di italici che opportunamente stimolati potrebbero fare reti di «business, scambi culturali, relazioni interpersonali, tradizione e innovazione, possibilità di lavoro, informazioni pratiche».
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