L’azienda etica mi rende nervoso

Le imprese potranno mai essere davvero etiche? Vantaggi e criticità dei comportamenti responsabili d’impresa.

L’idea di scrivere sul rapporto tra etica e impresa mi è venuta poco prima delle vacanze di Natale, ero in azienda, alle prese con la divulgazione a mezzo stampa di un investimento etico che la proprietà aveva deciso di effettuare. A dispetto della bontà e della ricaduta positiva dell’azione, ho faticato non poco a convincere testate e giornalisti locali a pubblicare la notizia. Dinanzi alla reiterata motivazione che essendoci un’azienda dietro, non vi fosse alcuna notizia, in molti casi invitandomi a rivolgermi verso spazi a pagamento, lo confesso qui, mi sono indignato e ho riflettuto a lungo sul perché, oltre che sulla natura della mia reazione. 

Ci sono ambiti come quelli dell’organizzazione aziendale che si presentano freddi e poco attraenti al grande pubblico, a causa di una consolidata serie di pregiudizi diffusi nell’opinione pubblica. L’azienda è percepita socialmente come un corpo unilateralmente animato da una ragione utilitarista, in grado di spiegare ogni suo comportamento. E in un certo senso lo è, sebbene proprio al suo interno si collochino grandi tensioni umanistiche, politiche, culturali e filantropiche, tanto significative da supplire alla crisi di altre organizzazioni sociali oggi fortemente in crisi. Mi riferisco ai corpi intermedi come le associazioni e i partiti politici ma anche ai gruppi di interesse come i sindacati e le associazioni di categoria, sempre più minacciati dalla de-materializzazione della partecipazione tra i propri iscritti e militanti. Una crisi ideologica che coinvolge anche i gruppi di pressione, le chiese e i movimenti collettivi, sempre meno autentici e sempre più simili alle forme organizzative che dichiarano di voler superare. 

Le aziende, al contrario, vanno sviluppando forme complesse di fidelizzazione sia dei propri dipendenti sia dei propri clienti. Cresce la consapevolezza del capitale umano e della sua importanza come fonte imprenscindibile di competitività. Si moltiplicano gli strumenti interni per valorizzare le performance, il welfare e il benessere aziendale dei propri dipendenti. Talvolta si tratta solo di retoriche talaltra si affermano come logiche organizzative in grado di animare le condotte organizzative di gruppi più illuminati. Persino il marketing ha compreso che gli storytelling migliori sono quelli che si concentrano sulla forza lavoro, sulla narrazione degli sforzi di miglioramento e di cambiamento a cui i lavoratori si prestano ogni giorno. L’employer branding, come celebrazione del posto di lavoro, come pratica narrativa che motiva i nuovi assunti ad entrare nella filosofia aziendale, funziona come cassa di risonanza, in grado di far vibrare la notorietà del brand, ben oltre i suoi confini. Provate a ricordare la pubblicità di una banca e vi verranno in mente i suoi dipendenti che ne parlano bene (e ci mancherebbe!). In un mondo in cui il lavoro scompare e ricompare sotto altre sembianze, la dimensione spaziale dell’impresa, i luoghi della produzione si affermano come templi mitici. 

In questo solco s’inseriscono le campagne pubblicitarie dei grandi brand capaci, attraverso vecchi e nuovi media, di costruire realtà e territori a propria immagine e somiglianza, puntando ad ampliare i propri confini e a colonizzare luoghi sempre più distanti. Mi sono occupato di questa tensione in un fortunato libro di qualche anno fa che riprendo, spingendo le sue conclusioni ad un punto ancora più estremo, (Napoli brand. Il valore aggiunto del territorio per l’identità aziendale, ed est dell’equatore, 2012). Avevo analizzato le strategie comunicative che conducono le aziende ad investire sui propri territori (o a disinvestire negando le proprie origini), rivendicandoli come tratti della propria identità ma anche interpretandoli in funzione dei propri valori, fino a creare mondi, pianeti e galassie. Una ricerca che andrebbe aggiornata annoverando tra i casi di studio più memorabili il rinascimento aziendale dell’imprenditore Cucinelli, basato su un’idea di bellezza che partendo dall’azienda, è in grado poi di diffondersi e contaminare il territorio.

Siamo circondati da aziende e marchi sapienti, in grado di forgiare stili di vita, di rassicurarci quando siamo giù di morale, di coinvolgerci in esperienze totalizzanti, emozionali e polisensoriali. Si tratta di una supplenza molto rilevante a livello sociale che spinge le nuove cattedrali a dotarsi di una vision aziendale fortemente improntata all’affermazione di valori e aspetti immateriali altamente significativi che vanno dalla sostenibilità ambientale, alla salvaguardia dei diritti umani, al sostegno di interventi nel sociale a favore di soggetti svantaggiati o sofferenti. Vision organizzative che superano di gran lunga le mission produttive e che si affermano come nuove credenze collettive e anche per questo bisognose di legittimarsi come benefiche e in grado giovare contesto in cui sono inserite. Intendiamoci, non che le aziende abbiano bisogno di fare del bene alla collettività più di quanto non lo facciano mantenendosi in vita e assicurando il posto di lavoro ai propri dipendenti. Ma quando ciò avviene, la comunità intorno dovrebbe dimostrare di essere tale, la stampa locale dovrebbe darne risalto. Che sarà mai un po’ di pubblicità in cambio di una buona azione. Mi verrebbe, invece di augurare a quanti hanno chiuso la porta alla buona novella, di ritrovarsi come editore, l’imprenditore censurato e in realtà, proprio dietro questa iattura, si nasconde una delle possibili spiegazioni. Vale a dire che le imprese che lavorano sugli aspetti immateriali della propria immagine, i cosiddetti brand, sono sempre più media di se stessi. I loro uffici marketing e comunicazione lavorano con logiche di testata, programmazione e palinsesti, spesso in competizione con i vecchi giornali anch’essi in crisi, come i corpi intermedi di cui sopra. Ad ogni modo, ho deciso di ritagliare uno spazio nel mio blog per parlare con la ragione e il sentimento di etica e di impresa. Con la promessa di ritornarci sopra, magari la prossima volta raccontando casi concreti e buone azioni.

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